REPORTAGE
24-09-2020 di Freddie del Curatolo
Il viaggio è avventura e spesso si programma tutto nei minimi particolari per il recondito piacere di farsi scompaginare le carte dal destino, sperando sia solo uno spiritello dispettoso e non un Grande Bastardo.
Qui però non si tratta né della Paris-Dakar né di risalire il corso del fiume Okawango in piroga. Nairobi e Maasai Mara in automobile è un’escursione alla portata di molti.
Le uniche cose che il nostro modus vivendi non sopporta sono il traffico persistente della Mombasa- Nairobi e i serpentoni di camion in fila e di pullman che li sorpassano fregandosene bellamente di chi gli viene incontro. Così ci siamo fatti spiegare da un amico che vive a Kajiado, tra l’Amboseli e il Maasai Mara, un percorso alternativo che da qualche mese è tutto asfaltato e dove di elefanti di lamiera non c’è neanche l’ombra.
Usciamo dall’Hunters dopo una colazione rigenerante ma rifiutando cortesemente uova strapazzate e salsiccia, salutiamo il ritratto del cacciatore (di nome e di fatto) e due aironi affettuosi che si librano in volo indicandoci l’uscita e da Kiboko ci dirigiamo verso la cittadina di Emali.
Da lì la Highway diventerebbe un mezzo incubo, perché si va verso le salite di Sultan Hamud dove i tir ingranano la seconda e vanno a 20 all’ora, senza corsie preferenziali, formando code interminabili e impossibili da superare, a meno che non si voglia accedere alla corsia preferenziale per l’aldilà.
Quindi, poco prima dell’ingresso in Emali, prendiamo lo svincolo della strada che porta ad Oloitokitok, al confine con la Tanzania che qui dista un centinaio di chilometri, e ai piedi del Kilimanjaro. Ma non è lì che ci dirigeremo.
Dopo 22 chilometri svoltiamo a destra nella nuova strada asfaltata che collega il niente con la città di Kajiado. E’ una provinciale stretta ma tranquilla, percorsa più o meno solo da asini.
Sembra di stare in Barbagia, d’altronde ho sempre pensato che i maasai siano i sardi d’Africa...o viceversa. Mano a mano che ci si addentra, però, si assapora anche una povertà sempre più problematica e meno dignitosa.
Spariscono le capanne di fango, complice anche il cambiamento climatico, e appaiono baracche di lamiera. Le case in muratura sono poche e spesso sono uffici governativi o negozi pitturati di verde Safaricom. La pastorizia regna sovrana, gli asini battono le motociclette cinesi 3-1.
Ci fermiamo a Selengei, ai piedi dell’unico boschetto verde che abbiamo incontrato in 40 chilometri.
I bambini che sulla costa ti vengono incontro urlando “peremende” (e “Ciao”, ovviamente) qui sono più timidi e restii, anche perché quasi tutti fin dall’età di cinque anni hanno un bastone in mano per governare vacche e capre.
Spariscono frutta e parecchia verdura dalle scarne bancarelle, dove languono cipolle, pomodori e cavoli verdi.
Attraversare il Kenya significa imbattersi anche in situazioni come queste: non solo Natura selvaggia e “visioni di anime contadine”, non solo riminiscenze storiche e trampolini verso la modernità, ma anche ineluttabile miseria e dignitosa rassegnazione.
Ci sembra perfino stupido constatare che nessuno porta la mascherina e che l'unica percezione delle regole Covid-19 è nelle taniche con rubinetto, ma spesso senza sapone liquido, piazzate fuori dai negozi. Anzi, è proprio da quello che una baracca fatiscente adibita a ristorante o barbiere si distingue da una "casa" privata.
E' così fino a quando non si arriva alla periferia di Nairobi, dove le diseguaglianze rendono più evidenti i contrasti. Con tutto che, dopo aver incontrato la grande strada che collega Athi River al confine con la Tanzania di Namanga ed aver svoltato a Isinya, ci imbattiamo in sobborghi abbastanza tranquilli come Kiserian, prima di scollinare verso Ngong e sfilare di fianco alla sua verde foresta.
Delle colline di Karen Blixen oggi rimane solo quel colore: abitazioni di ogni tipo, dai palazzi di sei piani a capannoni con tetti di lamiera, tempestano l’orizzonte flessuoso. Traffico, commercio e, toh, qualcuno porta la mascherina.
Di distanze sociali manco a parlarne. Ci sono già quelle economiche con cui fare i conti.
Quando vidi per la prima volta le colline di Ngong, trent’anni fa, c’era ancora il profumo di caffè delle antiche farm e si arrivava a Karen in pochi minuti attraversando la meraviglia. Oggi di quelle sensazioni sono rimaste solo le stradine interne del quartiere residenziale, che portano proprio alla casa museo della scrittrice e alle ville di politici locali, professionisti e bianchi ben radicati.
Tempo di scaricare le nostre cose a casa di chi ci ospita e di andare a promuovere l’italianità di Nairobi. Come leggerete in altri articoli di oggi.
A domani!
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