EDITORIALE
26-10-2020 di Freddie del Curatolo
Da una decina di giorni a questa parte il Kenya ha visto salire notevolmente il rapporto tra nuove positività al virus Covid-19 e i tamponi eseguiti.
Se quando il Paese osservava regole più o meno rigide, come il coprifuoco dalle 9 di sera alle 5 del mattino e la chiusura dei bar, le percentuali si attestavano tra il 3 e il 5%, ora fluttuano tra il 10 e il 14. Anche ieri sono stati segnalati 931 casi nel Paese su 6691 tamponi effettuati.
Tutto molto più allarmante, non perché nel Paese vi siano tanti casi gravi (i pazienti nelle terapie intensive del Paese sono meno di cinquanta e quasi tutti presentavano comunque patologie importanti prima di contrarre il virus) o perché muoiano più persone (ieri, ad esempio, solo 6) , ma perché gli ospedali tornano a riempirsi di cittadini sintomatici e devono comunque rispondere alla richiesta di esami, di cure ed eventualmente di ricoveri, che anche in presenza di sintomi lievi, devono essere effettuati in reparti speciali di isolamento.
Per questo l’associazione nazionale dei medici sabato scorso è tornata a chiedere, come all’inizio dell’emergenza, l’aiuto degli hotel che attualmente sono chiusi o non stanno lavorando quasi per niente. Sono già una ventina a Nairobi e dintorni le strutture che hanno risposto all’appello per fungere da strutture per l’isolamento e le cure domiciliari dei pazienti affetti da Covid-19.
Tra la gente, comunque, vige ancora un clima di estrema leggerezza.
Solo nei quartieri alti di Nairobi, dove i rischi di una pandemia diffusa potrebbero affliggere in maniera decisamente grave l’economia di grosse aziende e limiterebbero la crescita del Paese, c’è un senso di rispetto quotidiano delle regole. Basta recarsi nei popolosi quartieri della cintura urbana e ovviamente negli slum, che scompaiono mascherine e distanze sociali (in luoghi ad altissima densità urbana), e con la penuria di acqua e la mancanza di soldi per comprare il sapone, anche l’igiene va a farsi benedire.
La povertà tende ad accantonare il Covid-19 anche nelle aree rurali e sulla costa, dove però c’è un elemento che continua a far ben sperare: i grandi spazi aperti che sono praticamente una garanzia di distanze sociali. In queste zone tra l’altro è molto più facile individuare i focolai, perché spesso scaturiscono da episodi circoscritti e ben conosciuti nelle zone circostanti: un funerale con partecipazione di massa, il comizio di un politico molto seguito, un fatto di cronaca o una protesta che aggrega molte persone.
Sulla costa l’aumento degli ultimi giorni si deve anche al buon afflusso turistico di vacanzieri locali che arrivano proprio da Nairobi. Molti di loro continuano a rispettare le restrizioni come fossero nella Capitale, altri si lasciano andare al clima di festa e ad abitudini diverse, spinti anche da quel che vedono intorno a loro. “Corona non c’è” dicono sulle rive dell’Oceano Indiano, e invece c’è anche se a bassa carica virale e protetto, appunto, dalle grandi distanze.
Ecco perché comunque le destinazioni di mare tengono ancora e restano aperte: le distanze e la libertà di muoversi senza doversi ammassare sono fondamentali.
Per il resto, la consapevolezza della gente difficilmente aumenterà. La loro filosofia di vita è nota e le condizioni economiche per chi vive in equilibrio sulla soglia della sopravvivenza sono ben più importanti di qualsiasi malattia, anche più grave e più mortale del Coronavirus (perché qui ce ne sono, eccome...lo dicono i numeri). Come ha detto recentemente il numero 1 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in Kenya, Patrick Amoth, “speriamo che non dobbiate vedere la gente morire per strada per convincervi che dovete rispettare le regole”.
Continuiamo a non credere che il Kenya corra questo rischio, per i motivi elencati qui sopra e perché spesso “quello che non si sa, non succede”.
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