REPORTAGE
29-01-2012 di Freddie del Curatolo
Lo chiamano il corridoio.
Ma non è quello con le mattonelle a rombi di una vecchia casa, nobile o di ringhiera che sia, con la padrona anziana che lo asfalta avanti e indietro con le pattine ai piedi.
Questo è un corridoio di polvere e petrolio, di carichi pesanti e pericoli da sorpassare.
E’ la Nairobi-Mombasa.
Forse solo il Brennero nei giorni feriali vede transitare così tanti camion.
Nel corridoio c’è tutto il Kenya da esportazione su gomma, buona parte dell’Uganda, un po’ di Etiopia e c’è anche la Tanzania lacustre.
Tutti verso l’atrio prima dell’uscio.
Il grande porto d’Africa aspetta. I container ammassati sulla riva del creek hanno assorbito la calma ancestrale del continente. Arrivano a frotte i pachidermi di lamiera e scaricano il proprio ingombrante peso davanti alle gru, enormi giraffe sonnecchianti.
Un cimitero degli elefanti, ironia della sorte.
A Kisii il lavoro è stato completato. Il sovrintendente cinese aveva precedentemente acquistato forniture di pietra saponaria da riempire le toilettes di mezza Shangai.
E’ in mezzo a quell’orgia di porta saponette, cofanetti e soprammobili che si nascondono le zanne in tranci.
Nessun controllo serio nel corridoio.
Bolla d’accompagnamento, assicurazione, gomme semilisce e via, a sollevare polvere sulla polvere, ad imbiancare le acacie e i maasai che attendono un matatu o qualche altra sventura che se li porti via.
Il corridoio è una manna, un’opportunità, una galera invisibile in cui l’ora d’aria prende la giornata, la percorre e la riempie di piccole occasioni per sopravvivere.
Il tir di saponaria si confonde con altri mille e taglia il corridoio tra sorpassi e frenate, posti di blocco e borghi da far west africano.
Un motel-macelleria, un bar di legno e lamiera, una pompa di benzina.
Potrebbe essere new Mexico, se non spuntassero fuori i maasai come qualcosa che non c’entra niente, come in un film di David Lynch.
Il tir scavalca Mtito Andei, poi il crocevia di Voi.
Per qualche chilometro magari avrà al suo fianco un collega tanzaniano che arriva da Taveta lungo una strada cattiva e accidentata come il governo in Congo e ha nascosto le zanne in mezzo al tek e a pietre strane.
Sollevano polvere a Mariakani, a Mazeras e riposano gli arti nel traffico d’ingresso a Mombasa, dove il corridoio si restringe fino a sembrare un vicolo cieco, un angiporto.
Il grande atrio di Mombasa.
Sembra quasi uno scherzo del destino che il simbolo della città siano le due grandi zanne incrociate di Moi Avenue. Tusk City, la chiamano. La città delle zanne. Dovrebbero cambiare il nome in Elephant Cemetry, forse.
E’ una piazza d’armi, un territorio da saccheggio pure il Kenya attuale.
Quanti di questi traffici, quanto di questo traffico, d’inquinamento che fa arrendere la savana alle porte della città, dipende dal Paese.
Quanta di questa polvere è sollevata per l’Asia e l’Occidente e quanto rimarrà nelle mani di pochi kenioti.
Da nord arriva tè, caffè, ananas e orchidee surgelate. Nella confusione generale cosa vuoi che sia un tir di pietra saponaria.
Soltanto quattrocento elefanti in meno nello Tsavo.
Soltanto quattrocento elefanti morti.
Qualche mese fa un carico sospetto è stato controllato come si deve. Hanno trovato 465 zanne.
Qualcuna, con una spavalderia che fa riflettere sul coinvolgimento di tanti, non era stata nemmeno segata.
Bella, fiera e senza tempo era pronta per salpare alla volta di Singapore. (fine terza puntata)
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