EDITORIALE
31-12-2020 di Freddie del Curatolo
Bisognerebbe ora disquisire su cos’è che rende la vita brutta, spiacevole, triste.
Soprattutto per capire veramente cosa invece fa la vita bella, appagante, felice.
A chi chiedere?
Per ottenere una risposta su questo tema, sono più attendibili gli esseri umani che vivono di alti e bassi, di voli e sprofondi, oppure quelli che navigano da sempre nella mediocrità, nell’attendismo, nel mar delle incertezze e dei timori?
Nel dubbio, meglio chiedersi da soli se sono gli eventi esterni ad incidere maggiormente o dipende tutto da noi.
E’ la gente che ci circonda o bastano una o più persone care?
Si potrebbe dibattere filosoficamente per ore, specie se ancora ci si parlasse e soprattutto ci si ascoltasse.
Se poi c’è ancora qualcuno per cui un Governo o un’aliquota fiscale incide sul proprio umore o privato di connessione internet per 24 ore dà fuori di matto, di cosa vorremmo parlare?
Rassegnamoci, non chiamiamo in causa i massimi sistemi, l’involuzione e l’imbarbarimento della specie.
E’ molto più semplice, ineluttabile, dire che il 2020 globalmente è stato uno degli anni più di merda dell’era moderna.
Di sicuro il peggiore in assoluto degli ultimi 75 anni.
Ognuno faccia i suoi conti, tiri le conclusioni di questa tappa convenzionale fatta di 365 giorni.
Ne lasci pure 600 di quelli quarantinati, isolati, coprifuocati, ristretti, mascherati, contenuti, sanitizzati. Di quelli contagiati, ospedalizzati, ossigenati, salvati.
Di quelli con parenti e amici andati e non salutati.
Di quelli con individui impauriti, frustrati, indeboliti, stressati, incazzosi, spaesati, negazionisti o paranoici, ligi o multati.
Il virus come una guerra unisce e divide, crea solidarietà e nemici, rispetto e sospetto.
Ma in tutto questo la felicità si è sempre rivelata nelle cose semplici, negli affetti sicuri, nel ritornare all’essenziale, al passato.
Questa volta tutto sembra più cupo perché non si vede questo desiderio, questo impulso di pensare che la propria felicità dipenda direttamente dalla libertà e non dalla solidità delle gabbie che ci siamo lentamente costruiti.
Io, come sempre, non ho molto da insegnare sulla felicità.
E come se parlassi di un ciclista avversario che inseguo da chilometri e chilometri e che ogni tanto riesco ad affiancare. Qualche volta mi ha sorriso, una volta ci siamo anche scambiati la borraccia.
Ma è più forte di me e puntualmente riprende a pedalare via.
Sarà anche per questo che mi sono trasferito da tempo in Kenya.
Per smettere di pedalare dietro a qualcosa che forse era anche possibile raggiungere, ma che alla fine non ne valeva la pena, perché non ti avrebbe dato soddisfazione.
Almeno non a me.
La mia soddisfazione è nella ricerca, più che nel risultato.
Qui, poco sotto l’Equatore, non c’è questo rischio.
Difficilmente si arriva da qualche parte e al ciclismo si preferisce la corsa, il mezzofondo.
Niente strappi, salite e discese, curve e scatti finali.
Nessun Gran Premio della Montagna o giochi di squadra, gregari o campionissimi.
Qui si punta alla costanza, a tenere l’andatura, ad imparare dal passo di chi ti sta davanti.
Si fa fatica, ma è una fatica conosciuta, vicina all’animo umano.
Una fatica contadina, operaia, di madre che partorisce e alleva i figli.
Una fatica di battaglie, di coscienza, coraggio.
Di bisogno di essere compresi.
Ma senza violenze, senza sotterfugi o invenzioni strane.
Con pazienza, volontà, rispetto.
Con umiltà, imparando giorno per giorno.
E’ molto più simile all’esistenza, una maratona.
Al termine di un anno indimenticabile, vi mando questi miei pensieri e vi auguro di ritrovare il passo.
E quando arriverà di nuovo un tempo da cani, fischiettando allegramente, che vi venga spontaneo sorridere e pensare quanto è insolita ma che sfumature piacevoli può avere, una corsetta sotto la pioggia battente.
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