EDITORIALE
09-01-2020 di Freddie del Curatolo
Nell’agosto del 1990 il Kenya era nel pieno dell’esplosione del turismo e particolarmente la costa keniana entrava di diritto tra le mete più gettonate nelle agenzie di viaggio. Aprivano nuovi villaggi turistici come funghi, i grossi tour operator si spartivano Malindi e Watamu ed il settore edilizio era in gran fermento. Apriva il Casinò ed era in fase di realizzazione il centro commerciale Galana Centre.
Lo scoppio della Guerra del Golfo bloccò per alcuni mesi il turismo italiano per le notizie che apparivano sui giornali (a quei tempi non esistevano internet e social e quindi nemmeno le fake news) che sconsigliavano viaggi con rotte che passavano sopra ai Paesi nordafricani alleati del mondo Arabo e antiamericani, come ad esempio la Libia di Gheddafi. E che anche la stessa costa keniana, essendo piena di islamici e con la Somalia in subbuglio, poteva essere una potenziale polveriera.
Ci vollero parecchie settimane per convincere l’opinione pubblica che in realtà tutto era tranquillo e non c’erano pericoli di sorta (confermati anche dai fatti). Per dicembre la situazione tornò alla normalità. E per Malindi fu una delle stagioni turistiche memorabili.
Il 26 gennaio 1991 il crollo del Governo somalo, con la cacciata del Presidente Siad Barre e la conseguente terribile guerra civile, bloccò per più di sei mesi il grosso del turismo. Grazie anche all’influenza di una famiglia molto potente in Italia che aveva giurato vendetta al Kenya per motivi personali e all’allora Ministro degli Esteri che aveva avuto una disavventura proprio a Mombasa, per un po’ le destinazioni turistiche keniane furono tabù. Ma anche allora in realtà, più che qualche vittima degli eccidi somali portata sulle rive keniane dalle correnti dell’Oceano Indiano e profughi raccolti in campi dalle parti del Tana River, non ci fu nessun problema né ripercussione per le zone frequentate dagli italiani.
Così adesso, con l’inizio di una schermaglia che sembra più di una semplice querelle e che fa presagire a un'imminente guerra tra Iran e USA, il nome del Kenya viene associato a possibili pericoli e disagi, vuoi per la presenza di basi americane ed inglesi, vuoi per la più importante sede delle Nazioni Unite dell’Africa Subsahariana a Nairobi, vuoi per molti interessi delle multinazionali nel Paese.
Tre giorni dopo l’uccisione dell’influente generale persiano Soleimani, la base americana dell’isola di Manda, nell’arcipelago di Lamu, è stata attaccata da un gruppo riconducibile ai terroristi somali di Al Shabaab. Quattro cittadini statunitensi sono stati uccisi.
Ma cosa rischia veramente il Kenya e dove potrebbero esserci pericoli reali?
L’Ambasciata USA, già obbiettivo di un attacco dinamitardo il 7 agosto 2008 (altro anno infausto per il turismo in Kenya, già minato dai caos elettorali del mese di gennaio), è ovviamente sotto la massima sorveglianza, così come la base militare britannica a Nanyuki, dove nei giorni scorsi sono stati scoperti e arrestati due cittadini somali di passaporto canadese che spiavano l’andirivieni e probabilmente progettavano qualcosa, o trasmettevano informazioni a terzi.
Mentre al confine con la Somalia, in zone assolutamente lontane da quelle dell’afflusso turistico, come sempre si segnalano episodi di violenza (particolarmente nel campo profughi di Dadaab, proprio sulla linea di confine in mezzo al deserto), sulla costa l’attenzione è alta e non ci sono obbiettivi cosiddetti sensibili. Inoltre gli islamici presenti sul territorio sono moderati e molti di loro da sempre lavorano nel settore del turismo o grazie all’indotto guadagnano bene.
Non vi sono hotel o attività di proprietà americana o israeliana nella Contea di Kilifi, e ad oggi nemmeno verso Mombasa, come invece accadde il 26 novembre 2002 a Kikambala, nell’attacco suicida al Paradise Hotel, di proprietà appunto israeliana.
Oggi le attività USA sono concentrate nella Rift Valley, ma inutile dire che nelle riserve del Maasai Mara e del Samburu non è facile portare un attacco terroristico, e infatti non ce ne sono mai stati.
Le ripercussioni di questa nuova insensata guerra (ma quando mai la guerra ha senso?) sul Kenya potrebbero essere di natura economica: l’Iran è un buon importatore di té e caffè dal Paese africano e il Kenya è in affari per quanto riguarda il petrolio e il riso. I prezzi potrebbero variare e il Kenya avrebbe di che zoppicare in un periodo particolarmente delicato per la sua economia interna, in cui la crescita, pur rimanendo in attivo, sta subendo rallentamenti significativi. Peraltro l'Iran da tre anni è vicino al Kenya nella lotta al terrorismo e non ha mai appoggiato apertamente le fazioni estremiste somale. Nel settembre del 2016 in una visita ufficiale a Nairobi il portavoce di Teheran Ali Larijani aveva confermato gli ottimi rapporti tra le due Nazioni.
In ogni caso, turisti diretti a Malindi, Watamu, Mambrui e Diani, state tranquilli, la costa del Kenya non è più pericolosa del resto del Mondo. Ma in questo periodo è decisamente più accogliente.
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