DENTRO IL KENYA
14-11-2020 di Freddie del Curatolo
Al di là dei freddi numeri, che in un luogo mai glaciale e pieno di situazioni gaudiose o infernali appaiono ancora più lontani dalla realtà, la pandemia in Kenya esiste.
La vedi negli ospedali pubblici, nell’utilizzo di risorse da sempre minime come l’ossigeno, nella richiesta di supporti ventilatori e nella carenza endemica di personale a cui si aggiunge la defezione di operatori sanitari contagiati (ad oggi più di 1200 casi attivi). Ma la vedi anche nelle strutture private, i cui reparti di terapia intensiva e di alta dipendenza, benché ampliati e riadattati in tempi record, sono da mesi strapieni.
Alcuni hanno lunghe liste d’attesa, tanto che il Nairobi Hospital, dopo aver raggiunto un accordo per costruire accanto alle sue strutture un nuovo ospedale dedicato alle emergenze come la pandemia, nell’ambito di una collaborazione con il Governo e le Nazioni Unite, in soli novanta giorni ha già a disposizione servizi e letti per i propri dipendenti di stanza in Kenya.
In questo quadro non drammatico ma nemmeno allettante, nel quale anche il virus sembra essersi adattato all’andamento lento e blando locale ma allo stesso tempo sta mettendo radici tutt'altro che beneauguranti, si inseriscono il fatalismo e le distanze dalla realtà che appartengono a buona parte della popolazione keniana.
La cartina di tornasole che evidenzia il passaggio dal pericolo alla consapevolezza generale, attraverso i problemi di sempre (povertà, mancanza di igiene, habitat ostili o problematici) è l’uso quasi nullo della mascherina nel Paese.
A parte la Capitale Nairobi e le grandi città, specie in prossimità di uffici pubblici e stazioni di Polizia, nelle altre zone e nelle aree rurali quasi nessuno la indossa e le distanze sociali non vengono rispettate.
Abbiamo accennato al fatalismo, uno degli argomenti toccati dal Presidente Kenyatta nel suo recente discorso alla Nazione. Uhuru conosce bene la sua gente e nelle sue parole che immaginano un futuro migliore per il Paese, continua a sollecitare le nuove generazioni a non perdersi nell’ignavia e in quella che lui chiama la “povertà della dignità”.
Nel mondo di oggi, popolato da leader più minimi che “maximi” o da democrazie indecise al soldo dell’economia , è normale e suona addirittura sensato che un Capo di Stato dica al suo popolo “aiutati che io ti aiuto”.
L’uomo della strada (che qui spesso è uomo o donna dello slum, della baracca di lamiera e della capanna di fango) chiede mascherine gratis perchè non ha soldi per acquistarle e nel frattempo si contagia, tanto gira voce che i poveracci sono asintomatici perché non hanno mai avuto i soldi per coltivare il diabete o altre malattie del benessere. Perché di un ricco saprai sempre il motivo della dipartita, di un nullatenente mai.
Malaria, Tbc, infezioni varie. La mascherina per queste malattie non è mai servita, magari bastavano l’acqua pulita, l’elettricità al posto delle lampade di paraffina che in ambienti chiusi portano asma e altre patologie respiratorie che sono ancora una delle più importanti cause di decessi dei minori.
Però ora c’è un’emergenza che è di tutti.
Il Ministro della Salute Mutahi Kagwe risponde all’uomo della strada che bisogna adattarsi ai tempi e alle necessità: “Anche andare in giro vestiti è obbligatorio e costa denaro – ha detto pubblicamente – ma non per questo uscite di casa nudi chiedendo che sia il Governo a comprarvi magliette e pantaloni”.
Anche perché ai bisognosi non solo Stato e Contee hanno distribuito mascherine, ma anche cibo e disinfettanti durante i primi mesi di lockdown. Ma se chi in giro non la indossa e dalla tasca estrae uno smartphone di ultima generazione o si ferma al bar prima di rientrare a casa per una birra da 200 scellini, quando la mascherina gliene costa 20 e se la tratti bene la puoi usare anche due giorni, significa che le priorità sono altre.
Difatti i direttori sanitari delle strutture pubbliche sono uniti nel dichiarare che i keniani hanno timore di fare il tampone anche quando avvertono i sintomi del Covid-19. Si tengono tosse, febbre, perdita di olfatto e di gusto pur di non dover passare sotto il torchio della salute pubblica, rischiare la quarantena, lo stop al lavoro e l’isolamento rispetto ai propri cari.
Meglio rischiare di morire, senza sapere se la causa era il virus del 2020 o una malaria del 2016 trascurata.
Solitamente, dopo che hai tirato le cuoia, il motivo non interessa più.
Così come a molti, oggigiorno, la ragione per cui si vive, specialmente in una comunità.
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