PERSONAGGI
25-01-2017 di Freddie del Curatolo
Dall'ospitalità e la ristorazione nel paradiso di Che Shale alla prima farm di granchi e moeche in Africa.
Non c’è uomo bianco keniota più eclettico e creativo di Justin Aniere, il proprietario del beach retreat che da il nome alla spiaggia dorata a nord di Mambrui.
Un luogo selvaggio e magico tra le palme e l’oceano aperto, senza barriera corallina, che da quasi quarant’anni rappresenta una delle mete più ambite per un’escursione in giornata, magari con pranzo a base di pesce fresco e crostacei, corse sulla battigia, kitesurf e un’immersione in un luogo incontaminato nel competo rispetto dell’ambiente.
Justin, di padre spagnolo e madre di origine scozzese, ma con tante frequentazioni italiane, ha trasformato due capanne di makuti e poco più in un paradiso che ha nella semplicità la sua eleganza, con suite a due passi dal mare che sono piccoli gioielli di arredamento genialmente minimale.
Ma non è un tipo abituato a fermarsi ad ammirare i frutti del suo ingegno. Lui, cresciuto come un piccolo Tarzan nella natura wild della costa, si diletta in Kitesurf e Che Shale è diventato anche uno dei punti d’incontro degli appassionati di tutto il mondo.
“Sono appena tornato da una traversata da Lamu a Zanzibar per beneficienza – ci racconta – insieme ad altri sei kiters, abbiamo percorso più di mille miglia a tappe per raccogliere fondi a favore della tutela dell’oceano indiano. E’ stata una splendida faticaccia, e alla fine abbiamo raccolto 8000 sterline”.
Un viaggio per mare ancora più lungo e non meno faticoso, lo aveva intrapreso qualche anno fa, per portare a Che Shale un dhow, la tipica imbarcazione swahili, costruito in Mozambico. Ora è ancorato davanti al boutique hotel.
Appagato? Per nulla.
Justin recentemente si è inventato un nuovo lavoro, che gli sta dando grandi soddisfazioni.
“Come accade spesso – racconta il proprietario di Che Shale – tutto è nato per caso. Tra i granchi vivi che avevo acquistato dai pescatori delle mangrovie di Ngomeni, ce n’era uno particolarmente grosso. Aveva due chele come braccia di un ragazzino. Con la mia compagna, abbiamo pregustato una cena favolosa. L’ho sbollettato vivo e ho preparato le varie salsine ma nel momento di romperlo per dividerci la preziosa polpa, il granchio era completamente pieno d’acqua! La polpa era praticamente inesistente. Il giorno dopo mi sono arrabbiato con il pescatore e gli ho chiesto come potesse accadere”.
Siamo in Africa, dove tutto accade perché deve accadere e difficilmente le risposte che arrivano sono abbinabili a domande di tipo occidentale.
“I pescatori non sapevano, si limitavano a dirmi che ogni tanto capita che il granchio sia vuoto e pieno d’acqua. Ho deciso di informarmi, sono andato a fare ricerche su internet e ho scoperto quello che forse molti già sanno su questo tipo di crostacei ma nello stesso tempo ho avuto l’illuminazione”.
Quel che Justin è venuto a sapere è che il granchio durante le fasi della sua crescita, cambia più volte il guscio e per un ristretto lasso di tempo se ne presenta privo. Al primo cambio di guscio, quando è ancora piccolo e verde, impiega meno di tre ore a ricostruire il carapace. Lo produce più grande per poter continuare a mangiare e crescere. Più il granchio diventa grande e più ci metterà a cambiare il carapace. Ecco che se viene catturato subito dopo che ha mutato il suo aspetto esteriore, l’interno non avrà ancora abbastanza corpo e chi lo cucinerà avrà l’amara sorpresa che ha fatto scattare qualcosa nella fervida mente di Justin Aniere e che, dopo le ricerche nella rete, lo ha portato in Thailandia e in Malesia a studiare come allevare e nutrire i crostacei.
“Alla prima muta di guscio, quando i granchi sono ancora giovani – spiega il neo imprenditore ittico – per quelle poche ore sono morbidi e dolcissimi, sono le famose moleche che si gustano a Venezia e in Oriente e che sono pregiatissime. La mia idea è stata quella di predisporre nel terreno dietro a Che Shale un allevamento di granchi e monitorarli costantemente per poi prelevarli al momento del cambio di guscio, surgelarli e spedirli ai ristoratori o ai grossisti che me li chiedono”.
In poco tempo, costruendo vasche comunicanti con acqua di mare filtrata in maniera naturale (sono le ostriche a fare il “lavoro sporco”!) e facendo crescere i granchi separati in gabbie singole (altrimenti si mangerebbero tra di loro), Justin ha creato una produzione in serie destinata ad aumentare. La domanda è ingente, i suoi clienti sono ristoranti di Nairobi e aziende orientali contentissime di qualità e prezzi.
“Una singola moleca può arrivare a costare anche 6 dollari – spiega Justin - ora a Che Shale c’è la prima produzione di moleche dell’Africa ma l’idea nell’immediato futuro è allestire il primo allevamento di granchi. Farli riprodurre nelle vasche. Il granchio depone ogni volta 100 mila uova e il 10% saranno nuovi granchietti, quindi moleche. Ecco perché nell’oceano ne troviamo sempre così tanti. Si può immaginare quanti potremo produrne nell’allevamento. Qui oltretutto diamo loro da mangiare in maniera naturale, piccoli pesci di cui sono ghiotti, e teniamo pulitissime le vasche. Bisogna lavorare 24 ore su 24, a ciclo continuo”.
Nel frattempo Justin non dimentica la sua prima creatura, che negli anni Novanta aveva abbandonato temporaneamente per dedicarsi ad un’altra grande passione, i safari (lo sapevate che fu anche il primo ad organizzare i safari al Lago Chem Chem in cammello?). Ora a Che Chale c’è un menu speciale in cui si possono gustare i granchi cresciuti a pochi metri.
“Quelli che non diventano moleche, ce li mangiamo noi. E già che ci sono, allevo anche le aragoste".
Un consiglio a turisti e residenti: prima fermatevi a godere di questi splendidi frutti dell’oceano indiano cucinati dai cuochi di Che Shale, poi al limite chiedete di poter fare un tour guidato alla farm!
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