EDITORIALE
02-09-2015 di Freddie del Curatolo
Kemboi, Cheruyot, Bett, Rudisha, Yego, Jepkemoi, Kiprop.
Non è uno scioglilingua del lago Baringo e nemmeno l’invocazione di uno stregone samburu.
Sono i sette atleti del Kenya che, conquistando la medaglia d’oro ai recenti campionati del mondo di atletica di Pechino, hanno portato il loro Paese sulla vetta del mondo, grazie anche a sei medaglie d’argento e tre di bronzo.
E’ un Kenya che fa parlare di sé, finalmente, non soltanto per i guai con la vicina Somalia e per le esagerazioni dei media che consigliano al nostro uomo immagine di indossare un giubbotto antiproiettile ad un incontro pubblico con politici (roba che nemmeno ai tempi di Kissinger a Mosca).
Perfetta coincidenza di tempi, avrebbe detto Sandro Ciotti.
Che fosse tutto previsto, noi che viviamo qui, non ci crediamo: ma cade a fagiuolo la settimana del Kenya all’Expo di Milano, con la giornata di “Expo Kenya Running”. Due gare non competitive nel segno del “Paese che corre” e tanti campioni presenti.
In un mondo in cui correre è diventata una filosofia di vita, non più solo uno sport o un tenersi in forma, il Kenya non poteva sperare di meglio per rilanciare la sua immagine pacifica e pulita (ombre di doping escluse, ovviamente).
Il rischio, però, è che questi ulteriori trionfi, queste belle immagini, siano fumo negli occhi, polvere che dalle suole dei grandi mezzofondisti della Rift Valley, si solleva per coprire costumi un po’ meno sudati e un po’ più malsani delle tutine attillate di Rudisha & co.
Sì, perché il Kenya continua a viaggiare a due velocità.
I record nell’atletica si sommano ad un PIL sempre lusinghiero e all’economia florida che invita imprese di tutto il mondo ad investire, portare capitali ed esperienza a Nairobi, ma dall’altra parte qualcosa inizia a scricchiolare, per la fame atavica di una classe politica che non sa e non vuole guardare lontano.
L’esperto Luis Franceschi, decano della facoltà di Giurisprudenza di Nairobi, analizzava qualche giorno fa sullo Star la situazione paradossale della compagnia aerea di bandiera.
La Kenya Airways, “orgoglio dell’Africa” come recita il suo slogan, versa in una situazione problematica, sommersa da debiti incredibili (perdite per 274 milioni di dollari nel bilancio 2014) nonostante abbia le stesse potenzialità di una Ethiopian Airlines che in pochi anni l’ha surclassata, presentando un attivo di 113 milioni di dollari, raddoppiando le destinazioni nel mondo e soprattutto potendo permettersi di ridurre i prezzi delle tratte interafricane.
Cose che Kenya Airways non ha nemmeno preso in considerazione, continuando a perdere quota anno dopo anno.
E’ lampante vedere come alla vigilia di questo importante momento di immagine mondiale (o quantomeno europea) del Kenya, con la settimana all’Expo a cui parteciperà anche il Presidente Uhuru Kenyatta, le delegazioni politiche, diplomatiche, mondane, sportive, commerciali e turistiche che parteciperanno alle giornate milanesi, dovranno recarsi probabilmente con Ethiopian, con Turkish Airlines o con compagnie del mondo arabo in Italia, per la mancanza di un volo diretto tra Nairobi e l’Italia, terzo partner turistico del Kenya dopo Stati Uniti e Inghilterra, e in ascesa come investitore, considerate le aziende e le imprese che stanno arrivando e la mole di lavoro della nuova Camera di Commercio Italia-Kenya tra Nairobi e Roma.
Kenya Airways potrebbe rappresentare un’eccezione per l’economia keniana, e ce lo auguriamo, ma suona anche come un campanello d’allarme. Altri vanti di un Kenya che vuole correre verso il top, come la compagnia telefonica Safaricom che ha fatto notizia in tutto il mondo per la geniale invenzione di Mpesa, il sistema di pagamento via cellulare, potrebbero presto seguirla, e così altre compagnie minori, travolte da scandali, bisticci e ingerenze.
Secondo Franceschi il grosso problema di questo Paese è la crescita disomogenea, ma soprattutto l’eterno conflitto d’interessi tra pubblico e privato. MP, ministri e governatori locali sono spesso i proprietari delle grosse aziende che dovrebbero muoversi con il Paese per garantire una crescita uniforme e il cosiddetto, ormai quasi utopistico, sviluppo sostenibile.
Facendo correre gli altri e stando fermo a vedere cosa succede non vai da nessuna parte, specialmente se non metti in condizione di aspirare a una medaglia d’oro o di bronzo quanti più concittadini.
I mitici Asbel Kiprop, David Rudisha e men che meno Vivian Cheruyot, non sarebbero riusciti a qualificarsi nemmeno per le batterie eliminatorie di Pechino, correndo con un parlamentare in spalla.
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