PERSONE
24-06-2018 di Freddie del Curatolo
Ha il volto buono di una delle tante mamme dei quartieri poveri di Mombasa, Phyllis Omido.
Ma ha le palle di chi non si è arresa di fronte all'evidenza di una vita incanalata su binari che per molti concittadini sembrano inscartabili.
La sua storia è ormai conosciuta in tutti gli ambienti internazionali legati alla salvaguardia della salute dell'uomo e alla salvaguardia del suo habitat.
Fino a qualche anno fa era una ragazza madre di Owino Uhuru, slum di fango e lamiera popolato da gente della tribù di Raila Odinga, i luo originari del Lago Vittoria. Infaticabili lavoratori e abili artigiani, molti dei suoi vicini di casa lavoravano nelle tante fabbriche dei sobborghi di Mombasa.
Così l'esigenza di un buono stipendio l'ha portata, dopo gli studi a Nairobi, a dare in gestione il suo chiosco nello slum e farsi assumere alla Metal Refineries, fabbrica di proprietà di indiani che riciclava batterie usate per estrarre piombo.
Responsabile delle risorse umane, il suo ruolo da impiegata.
Pochi mesi dopo l'assunzione, il figlio che stava allattando si ammalò. E quando i test su altri bambini rivelarono nel sangue livelli di piombo più di trenta volte superiori al limite fissato dall’Organizzazione Mondiale della Sanita, il suo sospetto diventò una certezza: il metallo aveva avvelenato l’ambiente, provocando decine di morti. La stessa sorte sarebbe toccata al piccolo Omido, se la madre non si fosse potuta permettere di accedere alle cure mediche proibitive per un keniano qualunque: duemila dollari.
Dopo le sue proteste e data la sua posizione, il conto delle cure lo pagò l'azienda, in cambio del suo silenzio.
Ma Phyllis non poteva continuare a tacere, e la sua coscienza ha risvegliato ache quella del Kenya.
Nel 2009 Phyllis ha fondato il Centro per la giustizia e la governance per l’ambiente e con una "class action" ha portato il caso alla Corte Suprema del Kenia e all’attenzione dell’Onu.
Nel 2014 la Metal Refineries ha dovuto chiudere i battenti.
E Il Goldman environment prize, il cosiddetto Green Nobel ricevuto l’anno dopo, ha assicurato al suo impegno civile un’eco internazionale.
Ma Phyllis è rimasta senza lavoro, e una donna così combattiva e "rognosa" non la vuole nessuno, così a soli quarant'anni si arrangia come può, con lavori saltuari e consulenze.
Costretta più volte a cambiare domicilio per ragioni di sicurezza, paragona il suo nomadismo forzato a quello dei tanti africani che decidono di lasciare la loro Terra per tentare la fortuna in Europa.
“Nessuno dovrebbe emigrare, è la cosa più brutta che possa esistere, gli africani amano la loro casa e la loro casa è in Africa. Il nostro dovere come cittadini della terra è garantire che ciascuno nel mondo sia libero di svolgere il proprio lavoro e scegliere come vivere senza dover lottare per accedere a bisogni tanto primari come il cibo, l’acqua e le medicine”.
Phyllis oggi è ambasciatrice di battaglie contro le multinazionali che nel suo Continente sfruttano e inquinano.
“I keniani e gli africani hanno bisogno di una forma di governo che ristabilisca la fiducia dei popoli nei nostri paesi e in Africa - ha dichiarato recentemente ad Articolo 21 - Le comunità locali hanno bisogno di essere rese autonome nell’accesso alle informazioni, nella partecipazione pubblica alle attività decisionali e di un effettivo accesso ai rimedi giuridici, solo così l’Africa si potrà emancipare dalla corruzione che causa il proliferare di perdite di assetti e risorse pubbliche e potrà ristabilire la fiducia del popolo nella sua sovranità. Esorto le nazioni mondiali a sostenere la conservazione delle radici africane e l’impegno della società civile a restituire dignità, attraverso una efficace amministrazione che crei opportunità per tutti, in modo da restituire speranza ai nostri popoli e non farli cadere vittima della tragedia dell’immigrazione e del danno che ne consegue. Così da poter costruire l’Africa conservando le preziose risorse dei giovani che sono disperse con l’immigrazione”.
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