REPORTAGE
11-08-2020 di Freddie del Curatolo
I “matti” del Kenya, per un semplice osservatore, sono creature particolarmente intriganti.
Non ci si stanca di seguirne i movimenti, gli sguardi, la gestualità.
Ti sorprendono per l’instancabile lavorio, la vitalità contrapposta ad improvvisi momenti catartici in cui si annullano e perdono il contatto con ogni cosa e spesso anche i sensi.
Li vedi interagire con la Natura, nel bene e nel male: camminare in mezzo a strade trafficate incuranti di camion e motociclette che li sfiorano, accasciarsi all’angolo di un incrocio o attraversare senza guardare.
Li cogli mangiare foglie di cespugli, rovistare nella spazzatura o succhiare pietre coralline. Alcuni vorrebbero toccarti o ti fissano intensamente per poi esplodere in un’invettiva o una risata.
Sono ormai trent’anni che quasi quotidianamente ne vedo uno.
Ci sono i camminatori perenni, vestiti di stracci a più strati, quelli seminudi avvolti in una coltre di terra e polvere con barba e capelli incolti, gli storpi e i balbuzienti, gli epilettici che si rotolano nei campi e i timidi che ululano e scappano se ti avvicini troppo.
Ci sono le donne che mangiano terra e sgranano rosari di presunti sortilegi e maledizioni con parole sconosciute anche ai dialetti tribali e le ragazze che seminano fili di bava con gli occhi sbarrati e chiedono l’elemosina.
Personalmente, mi hanno rimandato da subito a certa letteratura e cinema neorealista italiano degli anni Cinquanta e ai racconti dei nonni.
L’Italia del Dopoguerra era ancora piena di “scemi del villaggio” e il “pazzo” in casa da tenere ben nascosto o far vedere al prete era una consuetudine, specie nei paeselli più lontani dalla civiltà che si affacciava e al futuro che incombeva, fatto di una socialità nuova, pulita.
Ma qui c’è di mezzo l’Africa, ci sono secoli e secoli di tradizioni tribali che, nel giro di pochi anni, hanno incontrato il progresso, addirittura la globalizzazione.
Per una settimana, per conto del Documentary Institute of East Africa (DIEA) abbiamo affiancato un’insolita carovana, messa in piedi dal Kenya Research Medical Institute (KEMRI) proprio per capire l’evoluzione di una situazione sociale che aggiunge al disagio mentale e alle credenze popolari il conflitto con la vita moderna in un Paese che sta cambiando velocemente e che in molti settori rischia di creare un vuoto tra passato e futuro, inghiottendosi il presente di milioni di persone, specialmente di deboli e invisibili.
Perché i “matti” di cui vi parlo si vedono, ma per ognuno di loro ci sono altre creature nascoste e sofferenti che vengono considerate spiriti del demonio, che per una semplice crisi epilettica sono tenuti in catene tutta la vita, che fin da piccoli vengono cresciuti come animali nei villaggi a causa di anomalie, autismi o patologie anche curabili.
Il Kenya si sta rendendo conto solo adesso che i disabili mentali sono esseri umani e inizia a sostenere iniziative in linea con quella che dovrebbe essere, anche in molti altri campi, l’evoluzione sostenibile di una società.
Così KEMRI ha ideato una campagnia di sensibilizzazione intelligente e lungimirante in cui ha voluto come partner l’associazione culturale MADCA che da anni si occupa della salvaguardia delle tradizioni culturali e sociali del popolo Mijikenda e di cui abbiamo testimoniato più volte in questi spazi la visione, le appassionate battaglie e la lucida, disperata, salvifica dedizione.
Sotto il nome “Difu Simo”, che in giriama significa “Liberarsi” e che prende il nome da un gioco che ancora oggi i bambini della costa sono soliti fare (una specie di “ce l’hai” a cui ad un certo punto si contrappone il grido “libero per tutti!” a cui si rifà l’espressione “Difu Simo”), è stato creato un tour itinerante nei villaggi tra Malindi e Kilifi, allestendo uno spettacolo in sette tappe, nel rispetto delle regole di non assembramento dettate dall’emergenza Coronavirus.
Qualcosa di veramente unico che sentiamo il dovere di raccontare, attraverso scritti ed immagini: difficile vedere in uno stesso ambito psichiatri, erbalisti, cantastorie popolari, danzatrici, ricercatori, rapper, divinatrici, poeti, documentaristi, guaritori tradizionali, assistenti sociali e deejay.
Eppure, giorno dopo giorno, l’allegra carovana non solo si è focalizzata sul compito di far capire alla gente dei villaggi quanto sia ingiusto trattare i malati di mente come appestati o posseduti, ma è riuscita ad interagire con familiari di ritardati, schizofrenici ed epilettici, a farsi raccontare al microfono, davanti a tutti, le loro storie e la difficoltà a gestire le loro vite ed il loro affetto all’interno delle comunità, a raccogliere domande ed elargire suggerimenti, inviti, speranze.
Abbiamo visto ed ascoltato storie e situazioni che è difficile racchiudere in un solo articolo.
Lo faremo a puntate, perché attraverso quelle storie c’è uno spaccato del Kenya di oggi.
Per ora vi dico che “Difu Simo” è stata una prima puntata di fondamentale utilità ed è stato un privilegio potervi partecipare.
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